Pepper n. 30, Edward Weston, 1930
La fine del mondo è speranza in un disegno, in un codice già scritto nella storia, da decifrare nel libro delle Scritture o nel gran libro della natura. In quel 21 dicembre 2012 e nell’ansia del suo esito si nasconde allora il nostro rifiuto psicologico dell’ipotesi che, forse, il cosmo non abbia alcun senso né alcuna direzione e che “noi umani abitiamo questo pianeta senza una ragione specifica né uno scopo stabilito dalla natura” (Gould 1999, 44). Una natura che forse non è in attesa di alcuna redenzione, ma è aggrappata alla sua autoconservazione, alla perpetuazione dell’imperativo vivere e di trasmettere la propria eredità. Refrattari a convincerci – come invece lo era l’ignoto estensore del Qohelet tra il IV e il III secolo a.c. – che sotto il sole non è “degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza, perché il tempo e il caso raggiungono tutti” (9, 11). Nessuno ha saputo dirlo meglio di Leopardi nelle Operette morali , in quel Dialogo della natura e di un Islandese in cui la prima, matrigna e indifferente, apostrofa così il secondo “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? … Se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.
La fine del mondo – Guida per apocalittici perplessi, Telmo Pievani