Perché fotografo

 

Come tutti quelli che provano piacere nell’accostare un congegno all’occhio, inquadrare all’interno di un mirino e premere un pulsante, anch’io per anni mi sono chiesta perché fotografo.

Ci sono quelli che “la mia fotografia intende essenzialmente regalare un’emozione … , trasferire ad altri l’emozione che provo davanti a un tramonto (nelle sue varianti di: davanti a un bimbo dagli occhioni stupiti-un gattino spaventato-il deserto-l’oceano-la campagnainautunno-ilcielodinottetrapuntodistelle …)”.

C’è chi, invece, lo fa (e non lo ammetterebbe mai) per sentirsi dire “WOW! Questa fotografia spacca!!! E’ davvero pazzesca!!!”.

Ci sono poi quelli che “Fotografo per dare sfogo al mio bisogno d’arte” e quelli che “perché mi piace”, ma poi non sanno dire in che cosa consista questo mi piace.

Insomma, nulla di tutto questo corrisponde a quel che vado cercando e anzi, non mi interessa per niente. Infatti basta osservare le mie fotografie per rendersene immediatamente conto: escludo nella maniera più assoluta che possano suscitare una qualche seppur minima “emozione” o che esprimano un senso artistico. Sicuramente nessuno oserebbe dire che “Spaccano!”. E nemmeno “WOW”, a pensarci bene …

John Szarkowsky, il direttore del dipartimento di fotografia del MoMA dal 1962 al 1991, cioè il Dio della Fotografia per circa trent’anni, distingueva tra chi faceva fotografie come specchi e chi invece come finestre. Specchi erano quelli che fotografavano per esprimere se stessi, raccontare una parte di sé. Alle finestre, invece, apparteneva chi, attraverso le proprie fotografie, raccontava il mondo esterno in cui si imbatteva.

Dal momento che lui (Szarkowsky, intendo) era Lui e poteva permetterselo, inseriva del tutto arbitrariamente, in un barattolo o nell’altro i fotografi che gli si presentavano. Così giudicava Diane Arbus certamente finestra. Anche se, a guardare oggi il suo lavoro, appare palese come quelle finestre fossero irrimediabilmente rivolte verso di sé, così diventando inesorabile specchio delle sue inquietudini.

Per molto tempo, dopo aver saputo di questa distinzione, ho pensato che fosse sacrosanta e mi sono di volta in volta sentita specchio o finestra, a seconda del momento della mia vita in cui mi trovavo. Ma a riguardare dopo anni le mie fotografie, con quel distacco che solo il passare del tempo, che affievolisce l’affetto che abbiamo per il nostro lavoro non appena l’abbiamo prodotto, ci sa dare, mi sono resa conto che ogni immagine è contemporaneamente finestra e specchio, perché sono io ad affacciarmi sul mondo e a decidere che cosa trovo degno di essere fermato in immagine e che cosa no e come: che cosa escludere dalla scena che ho davanti, a che punto tagliare, quale prospettiva … così facendo racconto di me, dei miei gusti, delle mie inclinazioni …

Poi mi sono imbattuta in una frase di Winogrand: “fotografo per vedere come appaiono le cose una volta fotografate”.

Ecco.

Ho avuto un’illuminazione.

Questa è precisamente la ragione per cui fotografo! E non ci avevo mai pensato prima. E’ dovuto arrivare qualcuno dal passato remoto a mettermi un dito nell’occhio. Qualcuno che evidentemente, però, ha ancora molto da dire anche oggi.

Mi interessa ritrovare il dettaglio che, a livello consapevole, mi era sfuggito al momento della ripresa. Cercare di capire se è proprio la sua presenza ad avermi inconsciamente indotto allo scatto. Mi piace ri-scoprire l’immagine, sapendo che le cose erano così come mi si presentano stampate su quel rettangolo di carta, solo in quel determinato momento in cui il mio dito si è abbassato sul pulsante e dopo sono cambiate, lasciando però la loro impronta sulla mia pellicola (o, oggi che uso il digitale, sul sensore).

Perché la fotografia non restituisce mai realmente ciò che mi si para innanzi, è sempre un’interpretazione, perché ne inquadro necessariamente solo una porzione, e lo faccio alla luce della mia sensibilità, del mio gusto (così come si è formato nel tempo, attraverso le letture, l’osservazione dei e nei luoghi, l’analisi delle fotografie altrui), del mio stato d’animo del momento …

Ciò che faccio entrare nella composizione e ciò che ne lascio fuori determinano un risultato finale che inevitabilmente mi sorprende. Guardare attraverso il mirino è ben diverso dal vedere il lavoro una volta stampato. E quando accade, mi scopro a chiedermi “perché?”, che è la domanda più bella che ci si possa porre.