Mi prendo in mano l’uccello, nel gesto dei miei tredici anni, rimasto uguale a se stesso, rabbioso e familiare dettato come allora soltanto dall’urgenza di scaricare questa tensione imprevista e inopportuna.
E mentre, non senza una punta di orgoglio, constato la consistenza ancora elastica stretta nel pugno, il telefono squilla, imperioso e brutale, distogliendomi dai miei propositi bellicosi.
Cerco di scacciare il suono insistente. Ma non c’è niente da fare se non andare rispondere. La lumaca che in un istante mi ritrovo tra le dita non lascia spazio a dubbi.
La voce che mi aggredisce dall’altra parte del filo è sgraziata e gracchiante e se già dopo un’abbondante colazione e numerosi caffè mi risulta antipatica, alla mattina presto, davanti al campo di battaglia che si stende ai miei piedi, è del tutto indigesta.
A stento grugnisco un “buongiorno capo”. Annuisco. “Arrivo”, aggiungo. E mentre mi infilo in macchina con l’aria disfatta, manco fossero le cinque del mattino dopo una nottata di quelle che piacciono a me, penso che anche questa volta mi toccherà aspettare ore prima di riuscire a mettere qualcosa sotto i denti. Il che per un sessantenne diabetico non è certo il massimo. Una volta gli sbirri (penso proprio così, catapultato negli anni Settanta) a cinquant’anni, o poco più, erano in pensione.
Fermo la macchina a un isolato dal posto, “il luogo dei fatti“, che mi ha indicato la Vice Questore Aggiunta Molineris (la chiamo così, con tutte le iniziali maiuscole), prendo la borsa con l’attrezzatura e, senza nemmeno chiudere le portiere, mi avvio a passo svelto verso il capannello di persone che si è radunato nel mentre.
L’inverno a Torino è insopportabile, quando piove. Tutto si copre di una patina di malinconia.