Fotografie come metafore

Che cosa stiamo guardando?
LaGioconda1
La Gioconda di Leonardo!
Che cosa stiamo guardando?
Leonardo da Vinci
La Gioconda, di Leonardo.
Che cosa stiamo guardando?
LaGioconda2
La Giocondaaaaa di Leonardo!!
Che cosa stiamo guardando?
LaGioconda4
Ma? Scherzi?!?
La Gioconda!!! di Leonardo!
Hai in mente di andare avanti ancora per molto?
Che cosa stiamo guardando, adesso?
Non capisco dove tu voglia andare a parare.
Comunque … Questo è l’attacco dell’11/09/2001 alle Torri Gemelle.
Pensi di riprendere a fare l’idiota come con la Gioconda di Leonardo?
Fermiamoci a riflettere, nessuna delle risposte alla domanda “che cosa stiamo guardando” è corretta.
In nessun caso, infatti, guardiamo “La Gioconda”, “L’attacco alle Torri Gemelle”. Ogni volta la risposta giusta sarebbe dovuta essere “una fotografia di …”.
La fotografia impone uno scarto, un’improvvisa deviazione dal percorso logico che ci porta a ritenere intercambiabili l’immagine fotografica di un oggetto e l’oggetto stesso.
Una roba mica da poco.
Ma non basta.
La fotografia ci fa credere di fare esperienza del mondo, senza in realtà farne esperienza diretta con i nostri sensi, con la nostra effettiva presenza al cospetto di quanto ci mostra.
Per questo mi piace pensare alle fotografie come a metafore.
Prendo a prestito un pensiero di Carofiglio. A prima vista la metafora (la fotografia) parrebbe solo una similitudine abbreviata, ma in realtà l’assenza dell’avverbio come produce una drammatica moltiplicazione di senso. Il salto, apparentemente piccolo che compiono la frase e l’intelligenza quando devono fare a meno del come,
si traduce (si può tradurre) in uno spettacolare incremento della comprensione. La metafora (la fotografia) è più potente della similitudine perché – quando è ben concepita e non volta alla manipolazione – costringe la mente a un cambio di piano, a un vero e proprio scarto della conoscenza o dell’intuizione.
La metafora (la fotografia) è una scatola magica da cui si possono estrarre nuove consapevolezze, profonde e trasformative”.
Aggiungiamoci che la fotografia ha un’impronta semiotica debole (cioè, in buona sostanza, le si può davvero far dire qualsiasi cosa e ciò dipende non solo da ciò che il fotografo decide di inserire all’interno della cornice e ciò che invece vuole lasciare fuori) e il gioco è fatto.
In questi giorni ho rispolverato una serie di selfies che avevo scattato l’anno scorso durante il primo lockdown.
Per una come me, amante della documentazione fotografica del territorio, in specie in notturna, ritrovarsi chiusa in casa è stato uno shock.
In un primo momento ho fotografato ogni angolo della mia abitazione, poi sono passata agli oggetti, poi … A un certo punto, a corto di soggetti, ho fatto una cosa che mai avrei creduto di fare: ho rivolto l’obiettivo verso me stessa. Lascio per ora da parte le conseguenze pericolose di un simile gesto, di cui magari parlerò un’altra volta.
Non essendomi mai presa troppo sul serio, ho cercato di mettere in scena, con ironia, il dramma quotidiano di una donna costretta a lavorare da casa, che non può andare dal parrucchiere, che non può andare dall’estetista, che non può comprarsi una nuova borsetta o l’ennesimo paio di scarpe, che va al supermercato e non trova il lievito, la farina, l’alcol, le mascherine … che ha voglia di strafocarsi di dolciumi, che è spaventata dal possibile contagio … Le piccole grandi paranoie, insomma, che – chi più chi meno – tutti abbiamo vissuto quando la pandemia era all’inizio e nessuno sospettava come sarebbe andata a finire (non che adesso le cose siano migliorate, sul come andrà a finire, intendo).
Riguardandole a distanza di poco più di un anno, mi sono resa conto che avrei potuto raccontare, tramite quelle stesse immagini, semplicemente cambiando le didascalia, una storia completamente diversa. La storia, ad esempio, di una donna abbandonata dall’uomo della sua vita che, attraverso le varie fasi della disperazione, della voglia di lasciarsi andare, dello sguardo indagatore sulle proprie responsabilità e del proprio lato oscuro, a poco a poco esce dalla sofferenza per riprendere a vivere (e sì, la serie finisce nel giorno di Resurrezione, con me incartata come un uovo di Pasqua a imitazione di Carmen Miranda, molto kitsch). E non escludo che con altre parole potrei raccontare ancora altre storie.
Con buona pace dell’adagio classico secondo cui le fotografie, se sono buone, parlano da sole.

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