Mentre mi fissi con gli occhi lucidi e una smorfia di dolore che ti sconvolge il volto, stringi nel pugno che ancora risponde al tuo comando tutti i tubicini cui è appesa la tua vita.
Non diciamo nulla, perché ormai non puoi nemmeno più parlare, ma io capisco parola per parola tutto quel che mi vuoi dire. Che la vita non è fatta per essere subita. Che continuare a vivere per la sola paura di morire non è nemmeno un’ipotesi sul tuo tavolo da gioco.
In poco più di due settimane, questo mostro assurdo, che ti è esploso dentro tutto d’un colpo, ti ha portato via a te stesso. Il fisico atletico è un sarcofago di ferro. La voce pacata e profonda, arrugginita da migliaia di sigarette, non risuona più nelle mie stanze. Nemmeno lo scoppio della tua risata. Persino il proverbiale promontorio che caratterizzava il tuo viso è ora una lama sottile e affilata…
Non ci sono parole. Solo ti prendo la mano. Allento la morsa delle tue dita che sembrano rimaste il solo luogo in cui si concentra la forza che ti ha sempre abitato. Ti sistemo le flebo, il catetere, il respiratore …
Il medico è costernato e mi dice che si potrebbe tentare una manovra.
Lo fisso, esattamente come avresti fatto tu: senza distogliere lo sguardo. Senza battere ciglio. E con una voce ferma che mai mi sarei sospettata gli chiedo: è una manovra alla quale lei sottoporrebbe suo padre?
Si stringe nel camice. È una brava persona e non sa fingere. Abbassa gli occhi. Esce dalla stanza.
Rimaniamo tu e io, nella penombra di questa sera di un luglio quasi australe.
E finalmente ti assopisci.