come nasce?

Las paredes de mi estancia,
en la soledad, entrechocan
segundos agonizantes.
Y la luna.

Te alejas
leguas de silencio.
La tierra està sembrada
de hojas.
No hay luna en mis manos.

Mi jardin, corazon solitario,
paisaje amarillo recogido en otoño,
velamen empapado
en la charca de la tarde.

Y un serio marinero
en la popa, fumando
tabaco de silencio,
corta la estela del recuerdo.

Aventuras los mastiles
ensangrientan.
Le pareti della mia stanza,
nella solitudine, si scontrano con
secondi agonizzanti.
E la luna

Ti allontani
leghe di silenzio.
La terra è seminata
di foglie.
Non c'è luna nelle mie mani.

Il mio giardino, cuore solitario,
paesaggio giallo raccolto in autunno,
velame inzuppato
nello stagno della sera.

E un marinaio pensieroso,
fumando a poppa
tabacco di silenzio,
taglia la scia del ricordo.

Avventure insanguinano
gli alberi.

E mentre cerco di portare a termine una delle mie esposizioni plurime, mi imbatto in tre poesie, di Roberto Ortelli, Norah Lange e Salvador Reyes, pubblicate sul secondo numero della prima epoca di PROA (primi anni Venti del Novecento).

Queste immagini (chiamarle fotografie è azzardato) mi sono venute in mente a valle della lettura sistematica dell’opera di Borges.

Io non so quanti hanno avuto il coraggio di farlo, soprattutto in lingua originale, soprattutto dopo appena tre mesi dall’inizio dello studio dello Spagnolo.

Comunque sia, il mio senso della misura è talmente scarso, che non mi sono nemmeno posta il problema.

Dopo essermi tenuta alla larga per tutta la vita dalla letteratura sudamericana e da Borges in particolare, a un certo punto ho sentito che era arrivato il momento di affrontare lo scoglio e non ho avuto il benché minimo dubbio che, se dovevo imparare a scalare le montagne, dovevo farlo partendo da quelle più impervie.

Non so spiegare la modificazione genetica che si è prodotta nel mio cervello. Ho cominciato a pensare in Spagnolo. Ho cominciato a sognare in Spagnolo. Ho cominciato a sognare poesie, in Spagnolo, che trascrivevo al risveglio, come in trance.

A un certo punto mi sono quasi spaventata. Sembrava che in me e attorno a me accadessero cose strane, come se il cervello mi si fosse dilatato per accogliere tutti gli stimoli che potevano arrivargli.

Ho preso a moltiplicare ossessivamente le immagini, con specchiature multiple, come caleidoscopi … Le astraevo da se stesse, cercando di sottrarre loro quanto le ancorava alla realtà.

Poi sono andata a Asti a visitare il Museo Guglielminetti e qui ho avuto la folgorazione.

Da un po’ di tempo, dal primo shoccante lockdown del 2020, dopo aver esaurito tutto il fotografabile domestico, avevo ceduto alla tentazione, sino a quel momento rifuggita come la peste, di girare l’obiettivo della mia macchina fotografica verso me stessa.

Per mesi mi sono ostinata a fotografarmi come un’attrice nei miei stessi panni. Per la cronaca, sono trascorsi quasi due anni, e non ho ancora smesso.

Studiando fotografe come Francesca Woodman e Cindy Sherman, che ben meglio e ben prima di me avevano affrontato la questione, cercavo una strada per esprimermi, che avesse ragione al contempo della mia voglia di mostrarmi e della mia inguaribile timidezza (lo so che sembra assurdo, ma sono proprio fatta così).

Come dicevo, arrivo al Museo Guglielminetti e scopro la genialità delle maquette realizzate dal Maestro per le scenografie da lui concepite nel corso di una vita (per spettacoli teatrali e televisivi, per il Museo egizio di Torino …). Mi sento come una bambina alle giostre e inizio a fotografare tutto, esaltata da quello che vedo. Ho solo il cellulare per farlo cosa che, a posteriori, si rivelerà una fortuna.

Tornata a casa il cervello elabora, elabora, elabora … E un bel giorno provo a sovrapporre.

Non sono nuova alle doppie esposizioni, mi piace molto mescolare le realtà. Non sono una purista, alla Atget, per dire, che raccoglie ready made surrealisti sulla superficie cangiante delle vetrine dei negozi parigini, quindi non mi faccio scrupolo di adattare la realtà all’idea che ne ho io. Prendo le fotografie e le sommo. Di norma me ne bastano un paio.

Alle fotografie dei vari palcoscenici organizzati da Guglielminetti, sovrappongo degli autoritratti in tuta nera da danza. Scatti effettuati con la macchina fotografica e il mio inseparabile obiettivo 20mm (un grandangolo spinto che, usato per degli autoritratti, farebbe rizzare i capelli a qualunque fotografo di buonsenso).

Ma non mi basta ancora.

Mi sembra che manchi un pezzo importante.

Ed ecco che mi ricordo di essere incappata, alcuni mesi prima, in un sito preziosissimo: Ahira, l’archivio storico delle riviste pubblicate in Argentina. Di tutte le riviste pubblicate in Argentina! Un’opera immensa. Uno sforzo immane ai cui compilatori bisogna essere grati in eterno!

L’avevo trovato cercando una traduzione fatta da Borges delle ultime pagine dell’Ulisse di Joyce (lo stream of consciousness di Molly Bloom, per intenderci). Lo so, sono strana, non c’è bisogno che me lo si ricordi. Comunque, la traduzione c’è ed è nel n. 6 della Rivista PROA, seconda epoca (da pag. 15, per chi fosse tentato; da pag. 10 una breve – nemmeno troppo – introduzione al lavoro in questione).

Insomma, aggiungo alle doppie esposizioni un ulteriore livello: uno screenshot di una pagina della rivista, scelta per il contenuto letterario o per l’estetica.

Il lavoro procede spedito per alcune settimane e poi mi incaglio su questa fotografia. Non riesco ad andare oltre. Mi incaponisco, provo e riprovo ma … Niente.

Poi, oggi, esattamente oggi 14/01/2022, la folgorazione. In realtà cercavo u’incisione di Norah Borges, la sorella pittrice di Jorge Luis, e invece… Tre poesie, Noche, Anocheser, El Barco.

Mi sembrano appropriate. Dopo mesi che cerco senza venire a capo di nulla, improvvisamente, mi sembra di aver trovato una soluzione. Anzi, “La Soluzione”.

Screenshot e via su Snapseed (che barbarie, eppure è proprio questa approssimazione che mi consegna il visivo che ho in mente).

E scelgo le parole che mi interessano per inserirle nei punti che ho in mente di riempire e scopro che ne nasce una nuova poesia.

Come dire, due lavori al prezzo di uno!

E a questo punto mi domando se mi appartiene …

E concludo che no. Ancora una volta, come sempre quando mi accosto a Borges, anche quando lo faccio solo obliquamente, le cose hanno vita autonoma.