E niente. Scendo dal pullman e vedo questa tipa che mi viene incontro.
Una folgorazione.
Abbronzata.
Ha un borsone rosso a tracolla e una camicetta bianca con le maniche risvoltate sugli avambracci. È talmente sbottonata che le si vede molto più di quanto si possa considerare lecito. Ma lei se ne frega, guarda dritto davanti a sé e il vento le scompiglia i capelli.
Sicuro è una fotografa: tiene un treppiede nella mano sinistra.
Avanza con passo elastico, riempiendo lo spazio con decisione armoniosa, si capisce ad occhio nudo che è soddisfatta.
E me la squadro per bene, a costo di sembrare fuori luogo.
Le sorrido.
Mi sorride.
E in quella manciata di secondi il significato del paradosso di Zenone mi si fa lampante: ognuno di quegli istanti si frantuma in un’infinità di schegge minuscole. E vedo la sua pelle ambrata e costellazioni di piccoli nei spiccarle sul petto e gli avambracci e uno scooby-doo bianco, blu e azzurro, azzurro come i suoi occhi azzurri, al polso sinistro. E i polsi e le caviglie sono esili, e nervosi, come le sue dita lunghe, dalle unghie cortissime, che osservo con attenzione quando si porta una mano al volto e gli occhi le scintillano, perché il sole la abbaglia e così li strizza, arricciando un po’ il naso, convocando tutt’intorno una ragnatela di rughe sottili che la fanno ancora più bella. E all’improvviso, nel frastuono delle cinque del pomeriggio, un rumore fuori dal coro attira la sua attenzione e volta di scatto la testa in quella direzione, scoprendo l’orecchio delicato al cui lobo brilla un piccolo pendente che accompagna il mio sguardo lungo la linea sinuosa del collo …