naufraghi metropolitani

Il suono stridulo dello shamisen ha il sapore aspro del cachi non ancora maturo adagiato nel piccolo contenitore di pietra, insieme ai germogli di yuzu e i ramoscelli contorti del nocciolo, nell’oscurità del tokonoma.

Nell’ombra appena accarezzata dalla luce, Murasaki pizzica le corde con lentezza estenuante. Le sue lunghe dita sottili si muovono leggere nella danza armonica e sullo yukata bruno le nervature argentate emergono a tratti giocando timide con la musica e la luce rarefatta che filtra dagli shōji appena scostati.

In quella fissità ieratica, un movimento appena percettibile scosta lo yukata, scoprendo il collo bianchissimo di Murasaki, su cui spicca oscura la peluria dell’attaccatura dei capelli, uno sfacciato guizzo scarlatto della fodera, poco sopra la sua spalla.
So che si è accorta della mia presenza, ma continua a suonare, indifferente.

In un angolo del tatami, come dimenticata dopo aver riordinato distrattamente, giace la ciotola con l’inchiostro polverizzato sulla pietra suzuri e stemperato con l’acqua della piccola brocca di stagno lì accanto. Indugio osservando il liquido cupo inghiottire ogni riverbero. Inspiro e trattengo in me tutta l’energia che quell’istante mi regala.

Poi intingo il pennello nella china. E mentre traccio sulla spalla di Murasaki l’ideogramma 粹 un brivido le increspa la pelle.

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