Il ricordo più bello che ho dei nonni è di loro due abbracciati, accanto alla staccionata, mentre ci guardavano andar via, dopo l’inizio delle vacanze estive, a gennaio…
Credo che per loro fosse un momento ossimorico (come mi piace usare questi termini esagerati!): erano dispiaciuti, perché sarebbero trascorsi ancora molti mesi prima che la loro grande casa risuonasse di nuovo di tutte le nostre risate, chiacchiere, corse lungo i corridoi, racconti … Ma allo stesso tempo erano sollevati perché cominciavano a essere vecchietti e tutta quella baraonda li stancava (“in effetti siete un po’ faticosi” diceva la nonna, con quel suo eterno meraviglioso sorriso).
Il nonno era enorme. Un orso. Imponente, con un gran pancione sodo, dove mi piaceva appoggiare l’orecchio per ascoltare tutto quello che il suo “didentro” aveva da raccontarmi. E braccia forti e mani sempre calde e tanto grandi. Però curate. Mani di uno che non si faceva problemi a lavorare con le mani. Mani di uno che però, poi, era uno scrittore.
La nonna era d’acciaio. Esile, questo sì. Un filo d’acciaio. Non era tanto piccola. Solo che, avvolta nel suo caldo poncho di guanaco, accanto a NonnOrso e col suo braccio attorno alle spalle, sembrava sempre minuscola.
Io restavo incantato a guardarli attraverso il vetro posteriore della macchina, mentre diventavano sempre più formichini, fino a svanire del tutto alla mia vista. Però lo sapevo che, quando restavano soli, lui la stringeva a sé e le diceva “vamonos, mujer, ya no es hora de llorar”. E allora lei sorrideva, con quel suo sorriso un po’ velato e battendogli la mano sul petto, gli rispondeva “vamonos, viejo gruñon, es hora de preparar algo que comer”. Lo sapevo o lo immaginavo, perché una volta li avevo visti fare così e guardarsi, occhi negli occhi, come se fossero ancora due ragazzini innamorati.
Tra loro parlavano in Spagnolo (anzi, in Castellano rioplatense che è la variante, addolcita nella pronuncia, che si parla in Argentina). Ma la nonna non era Argentina. E nemmeno Spagnola. E a voler dirla proprio tutta non era nemmeno la mia nonna. Cioè, lo era senza dubbio, se penso con il cuore. Ma non lo era se guardo all’albero genealogico.
Perché, e mi ci sono voluti anni per metterlo a fuoco, la banda con cui trascorrevo le vacanze di Natale all’estancia era quanto di più colorato si potesse immaginare.
Infatti il nonno era veramente mio nonno, nel senso che era proprio il papà della mamma, però ad esempio non era il nonno di Letizia, Thomas e Françoise né del piccolo Jorge. Già perché loro erano i nipoti della nonna, che era la mamma del loro papà, il suo unico figlio, il quale però “si era dato da fare” e aveva avuto tre mogli (o compagne, o qualcuna l’aveva sposata e qualcuna no, questo non l’ho mai accertato e in fondo non era granché importante) e aveva avuto Letizia con la prima, Thomas e Françoise con la seconda (che era una Francese un po’ supponente), e con Angeles, la sua terza moglie, che era di Buenos Aires, Jorge (che per la precisione si chiamava Jorge Luís, in onore di Borges, per la gioia dei nonni che si erano conosciuti e amati grazie a quello che si divertivano a chiamare “il Maestro”).
Non che dalla nostra parte le cose fosse più semplici.
Anche al nonno erano piaciute troppe donne, come diceva mamma maliziosamente, e ne aveva sposate due e con loro aveva avuto quattro figli (uno con la prima e tre con la seconda, tra cui la mamma). E poi c’era stata una terza e anche con lei aveva avuto dei figli (due).
E questa terza però era un po’ un mistero di cui lui non parlava volentieri e nessuno l’aveva vista mai. Anche se tutti eravamo certi che la nonna di lei sapesse perché, come sosteneva il nonno, la nonna di lui sapeva tutto e gli indovinava persino le intenzioni (questa cosa sta scritta in un racconto di Borges, che è un racconto bellissimo che parla del tango, che la nonna ballava e il nonno era un orso e quindi lui no, e di coltelli e risse, che invece piacevano tanto al nonno – aveva certe cicatrici sulle braccia … e una più profonda, sul petto).
Però … anche quelli erano figli suoi e li aveva amati e cresciuti al pari di tutti gli altri.
Vivevamo sparpagliati in giro per il mondo. Il che non ci impediva di riunirci tutti, ma proprio tutti, tranne la Francese supponente, all’estancia per Natale.